Ab Inferis
di Mario Luzi
Più volte nell’esistenza
aveva emesso la condanna a morte
la vita stessa – che poi continuava
subdola e sorprendente.
La vita stessa
con sue aguzze pene e deserte sofferenze
mi aveva spesso condannato a morte.
Ma un giorno incredibilmente
ebbero altri su di lei potere e norma.
La sentenza emanò da un orifizio
tristo, posto in una trista faccia
sotto il naso, sopra il mento e il pizzo.
A fatica riusciva a essere un volto
quella raggrinzita carne.
La parola morte, lei sola, rantolò nel mio timpano assordito.
Non ebbi chiaro allora dove fosse caduto quel macigno.
Era immane, aveva colpito solo un punto
o tutto l’universo? Ci volle molto tempo
perché affannosamente rinvenuto
da un primo bruto totale annientamento
a stento, con mortale angoscia divenissi conscio
che io, io solo, ero quel punto.
Su di me,
parvo frangente, briciola oscura del creato
era calato il colpo, era sceso quel fendente.
Mi sbalordiva enormemente quella inumana dismisura.
Su me quella violenza, su me l’iniquità
del caos irriducibile e perverso su me la mostruosa
cecità del caso aveva appuntato il suo furore.
Su me si consumava, perché?,
una vendetta primordiale, accesa
ab origine del mondo
trovava me sua vittima espiatoria
la contesa capitale: e aveva nella pagina
d’un molto bistrattato tomo il suo carnefice banale.
Che oscura crudeltà, che arbitrio si abbatteva sul mio cranio!
Così erano (stupite!) ridotti a tacere
la colpa, l’innocenza, e altri dilemmi della mia coscienza.
Chi ero io? Aveva il Figlio
dell’uomo, gradino su gradino,
con me salito l’abissale scala
e portato questa croce.
O quel pensiero mi restituì
al mio male, mi rifece uomo
crocifisso ai suoi rimorsi.
Non fu la mia solamente un’atroce imitazione
ma un grido ammutolito, una protesta
del cuore umano bruciato dal peccato e dal dolore.
Ma non fu disuguale la fede nella resurrezione.
Amen.